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Agenzie di investigazioni e detective alle calcagna del lavoratore: per la Cassazione non violano la privacy e possono essere valide prove contro il dipendente.
Privacy: vi si appella, ormai, a proprio piacimento e spesso per convenienza, specie negli ambienti di lavoro, ove viene richiamata come schermo – a volte legittimo, altre meno – dalle invadenze del datore. La questione poi della riservatezza dei dipendenti è ritornata, di recente, in pieno dibattito, per via delle norme contenute nel Job Act sulle riprese a distanza dei dipendenti e delle recenti aperture ai mezzi di controllo con la videosorveglianza.
La Cassazione, dal canto suo, ha più volte ritenuto legittimo l’utilizzo di accertamenti investigativi disposti dalla società per verificare l’eventuale rispetto dell’obbligo di fedeltà del proprio dipendente. “Storica” è stata una delle prime sentenze registrate in materia, che porta la firma del Tribunale di Milano. Secondo i giudici meneghini, il ricorso ad un’agenzia di investigazioni per controllare il comportamento dei dipendenti non è in contrasto con lo Statuto dei lavoratori, qualora l’investigatore si comporti come un qualsiasi cliente e si limiti a riferire intorno ad aspetti estrinseci e pubblici dell’attività del dipendente, che potrebbero essere colti da qualsiasi persona del pubblico che acceda alle somministrazioni.
Alcune applicazioni di tale principio si sono così avute nel caso di malattia del dipendente: il datore è legittimato a mettere gli 007 sulle orme del lavoratore per verificare che questi sia davvero impossibilitato a recarsi al lavoro o, magari, non ponga in essere attività che rallentino la sua guarigione (si pensi al lavoratore malato di polmonite, tuttavia trovato a fare footing).
A riguardo, la Cassazione ha precisato che, relativamente all’attività lavorativa svolta dal dipendente nei periodi di assenza dal lavoro per malattia, il datore di lavoro può infliggere il licenziamento non solo quando l’attività svolta al di fuori del rapporto di lavoro sia tale da far presumere una simulazione fraudolenta di una malattia invece inesistente, ma quando la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio. Ciò infatti, viene considerata una in violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede. Nel caso di specie la Corte ha sanzionato il dipendente a seguito delle indagini svolte da un investigatore privato.
L’investigatore privato potrebbe arrivare a “integrare” i controlli operati dal medico fiscale il quale, come noto, si reca al domicilio del dipendente entro un determinato orario e una sola volta al giorno. Nulla ovviamente assicura che, nel resto della giornata, il lavoratore non si trovi altrove.
Al contrario, però, il medico fiscale non può essere considerato un investigatore privato. Secondo la giurisprudenza, infatti, il medico fiscale ha certamente il dovere, pur di fronte ad indirizzo impreciso da parte dell’assistito, di acquisire un minimo di informazione e di esperire una rapida attività di ricerca “in loco”, ma, tuttavia, egli non ha l’obbligo di spingere la sua ricerca oltre i limiti di ragionevolezza sì da svolgere il ruolo di un vero e proprio investigatore.